RIVISTA DI POESIA E CRITICA LETTERARIA “EUTERPE” APERIODICO TEMATICO DI LETTERATURA ONLINE NATO NEL 2011 ISSN: 2280-8108 N°33 * LUGLIO 2021 * – WWW.ASSOCIAZIONEEUTERPE.COM
la toscanina, Verga è già sparito: è a Milano, in cerca di un editore per la sua Storia di una capinera. Concluso quell’irrequieto anno scolastico, Giselda ritorna a Firenze. Su quel progetto di matrimonio ci sono pareri discordanti. La madre di lei è entusiasta, il padre non lo è; la madre di lui si oppone; i Dall’Ongaro e la Fusinato sono favorevoli, altri meno. Dopo varie traversie, nell’arco di un anno, il matrimonio avviene comunque. Giselda e Teresa sono accolte freddamente dalla madre di Rapisardi. Fin dal pranzo di nozze, un vero e proprio peana del musolungo, un capolavoro, in negativo, dell’inospitalità, dello sgarbo mascherato da tradizionale consuetudine di accoglienza ma negata nei fatti e dall’atmosfera. Quel pranzo, lo descrive minuziosamente Maria Borgese, testualmente riportato da Giulio Cattaneo nella sua eccellente biografia verghiana, dalla quale lo deriviamo anche noi: Il pranzo di nozze fu triste, mal servito sulla tavola apparecchiata senza cura, nella stanza di passaggio, dove da una parte era abballinato il piccolo letto per la suocera. Quella sera erano stati invitati anche il fratello della madre, Vincenzo Patti, sarto, che Mario aveva soprannominato Giaretta e un ragazzo figlio di lui che più tardi, per imitare il cugino, si lasciò crescere la zazzera e portava la cravatta nera svolazzante. Padre e figlio mangiarono col cappello in capo, mentre il cognato Barbagallo aveva messo un fez rosso da bersagliere e Mario un berrettone di lana. Giselda e sua madre si davano delle occhiate furtive, mentre si confermava in esse il concetto della Sicilia vista a quei tempi dai Toscani come qualcosa di paradossale, di misterioso, di primitivo. La suocera, seduta a tavola di traverso, sua posizione abituale, non toccò cibo. Fu servita la minestra, poi la carne, e dopo il pesce. Quando arrivò in tavola la cassata, la suocera esclamò a voce alta, come se continuasse un suo pensiero: — Di luni arruzzuloni. — E spiegò meglio che potè alle due toscane il significato del proverbio: Mala sorte ai matrimoni fatti di lunedì. A Giselda spuntarono le lacrime: la signora Teresa e Mario cercarono di togliere la cattiva impressione di quella frase con motti di spirito, ma tutti gli altri restarono muti col volto chino sul piatto. Anche il passare quella prima notte di matrimonio tra le due madri — la Teresa dormì nello studio di Mario e la Maria nella stanza accanto a quella degli sposi, proprio a muro a muro con loro, e ogni tanto la si sentiva gemere e singhiozzare — fu cosa che mise di pessimo umore la Giselda: di più, prima che gli sposi si chiudessero in camera, la suocera pretese di entrare con loro per aiutare suo figlio a spogliarsi e a mettergli in testa un fazzoletto di cotone giallo a grosse pallottole marroni per tenergli a posto i capelli. Giselda garbatamente le fece intendere che avrebbe potuto benissimo far lei, e allora la suocera si mise a piangere dietro l’uscio 154.
La sposina è destinata alla coabitazione in una casa che la suocera rende subito inospitale e in cui la vita scorre sciatta, in ristrettezze, in un’atmosfera gravata dal lutto stretto (che allora durava ben cinque anni) per la morte del capofamiglia. Mario fa del suo meglio per stemperare la situazione, ma i risultati sono modesti. Del resto anche lui, come tutti in famiglia, subiscono l’imperio di quella donna. Perché tanto ostracismo da parte di lei verso la nuora? Naturale gelosia, certo, ma anche risentimento perché la toscanina aveva fatto sfumare il fidanzamento tra Mario e una giovane e ricca ereditiera del luogo. Recrimina su tutto, dalla scarsa dote di Giselda al fatto che la giovane non sia neanche, nordicamente, bionda, anzi scura di capelli, come tante ragazze etnee. Ben presto si trasformerà in un’erinni e si adopererà per fare in modo che quel matrimonio si sgretoli.
Cfr. MARIA BORGESE, Anime scompagnate: Rapisardi e la Giselda, in «Nuova antologia», 1937: f. 1576, f. 1577, f. 1578; cit. in GIULIO CATTANEO, Giovanni Verga, UTET, Torino, 1963, pp. 104-105. 154
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