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LORETTA FUSCO – “Noi ci diciamo cose oscure”

come un addio a me.

Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli, meravigliati e violenti con stesso ritmo andavamo,

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liberi singhiozzando, senza mai vederci, né mai saperci, con notturni occhi.

Or nei tuoi canti la tua vita intera è come un addio a me.

Cuor selvaggio, musico cuore, chiudo il tuo libro, le mie trecce snodo.

(Sibilla Aleramo a Dino Campana, Mugello, 1916)

Noi ci diciamo cose oscure di LORETTA FUSCO

[…] noi ci guardiamo, noi ci diciamo cose oscure, noi ci amiamo come papavero e memoria, noi dormiamo come vino nelle conchiglie, come il mare nel raggio sanguigno della luna. Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano: è tempo che si sappia! È tempo che la pietra accetti di fiorire, che l’affanno abbia un cuore che batte. È tempo che sia tempo. È tempo.

(PAUL CELAN, “Corona”)

Noi ci diciamo cose oscureè un verso della poesia “Corona” di Paul Celan, il grande poeta rumeno, di origini ebraiche, dedicata a Ingeborg Bachmann, scrittrice e poetessa austriaca, con la quale ebbe una relazione intensa e tormentata che durò tutta la breve vita di entrambi. Due grandi personalità, unite dall’arte, legate indissolubilmente al proprio passato che per Celan fu dramma esistenziale che lo condusse al suicidio.

S’incontrarono a Vienna, nella primavera del 1948 e fu amore assoluto, sei settimane che misero radici nelle loro anime e che è testimoniato da un carteggio postumo, che nella versione italiana della Casa Editrice Nottempo del 2010 ha il titolo di Troviamo le parole. Quasi vent’anni a rincorrersi senza strappare mai il filo che li univa nonostante le esperienze più disparate che li portarono ad allontanarsi anche per lungo tempo, cercando di spegnere in un altrove, l’arsura di vita che per Celan andava di pari passo con

l’impossibilità di convivere coi fantasmi del passato. Mai avrebbe pensato di potersi innamorare della figlia di un maestro, fervente nazista di Klagenfurt, lui che era stato costretto a lasciare prima il suo paese natio, raggiungere Bucarest a piedi, incalzato dagli eventi, poi Vienna e infine Parigi. Si era già fatto conoscere come poeta in Patria, quando ancora Czernowitz era in Romania, coltivando moltissime amicizie; ma se era riuscito a scappare dalle persecuzioni naziste, non riuscì mai a sfuggire al senso di colpa per essere sopravvissuto all’Olocausto nel quale perirono i suoi genitori. Iniziò a morire allora e visse come un diseredato, cercando di resistere all’impulso autodistruttivo. Paradossalmente, pur avendo scelto Parigi come città ove stabilirsi, curava in maniera quasi maniacale la scrittura in lingua tedesca, la cesellava, cercava di trovare quei significati che gli erano stati trasmessi dalla madre, cercando di fondere respingimento e attrazione verso la lingua dei suoi aguzzini. In una lettera al suo amico fraterno Erich Einhorn dirà:

Hai ragione quando dici che nella Germania Occidentale non mi hanno perdonato di aver scritto una poesia sui campi di concentramento nazisti – la Fuga di morte. Cos’hanno comportato per me quella poesia e altre simili, è un lungo capitolo. I premi letterari che mi sono stati conferiti non devono trarti in inganno: in fin dei conti sono solo l’alibi di coloro che all’ombra di quegli alibi continuano, con altri mezzi, più adatti al nostro tempo, ciò che avevano cominciato e portato avanti sotto Hitler.

Nei confronti della Bachmann provava una specie di attrazione dolorosa, visto anche il vissuto di Ingeborg, che sin da piccola aveva trovato rifugio nella poesia e nella scrittura di un diario per sfuggire ai ricordi terribili legati al periodo nazista che sconvolse la tranquilla vita nel piccolo paesino della Carinzia, dove viveva.

I non detti tra lei e Celan, avevano un peso. Tutta la loro corrispondenza fu uno sfiorare per poi ritrarsi l’argomento che tormentava Celan e che non ebbe mai una soluzione. Uniti dal sacro fuoco dell’arte sin dai tempi in cui frequentarono insieme il Gruppo 47, libera associazione di scrittori e critici tedeschi, Celan non si sentirà accolto, e anche Ingeborg si sentiva sdoppiata nel ruolo di poetessa e figlia del carnefice.

Nonostante la poesia di Celan fosse apprezzata e fossero molti i riconoscimenti tributatigli, non riuscì mai a superare il silenzio sulla Shoah, le critiche sui giornali, ma ciò che dette un colpo definitivo al suo precario equilibrio psichico furono le accuse di plagio

mossegli dalla vedova di Yvan Goll, l’amico poeta, calunnie ripetute negli anni che finirono per acuire il suo male di vivere. Lui e Ingeborg, nonostante l’attrazione reciproca, avevano intrapreso strade diverse, senza mai perdersi, alimentati da una corrispondenza fitta, a tratti fittissima che andava parallela alle loro scelte di vita, le più disparate. Entrambi sperimentarono numerosi amori e per molto tempo non si frequentarono. Lui aveva sposato Gisèle Lestrange, dalla quale ebbe il figlio Eric, lei aveva vissuto a lungo in Italia con l’amico musicista Hans Werner Henze. Ma tornarono ad amarsi impetuosamente nel 1957, quando s’incontrarono casualmente a Colonia, a un convegno di critica letteraria. Furono mesi di euforia amorosa stroncati dal carattere inquieto della Bachmann che iniziò a frequentare lo scrittore svizzero Max Frisch, sposandolo, matrimonio destinato a finire in breve tempo.

Ed ecco che ci diciamo l’oscuroprende sempre più forma e avvolge le loro vite, destinate a oscurarsi per sempre. Celan, da tempo in preda ad allucinazioni e problemi psichici, cercherà la pace nelle acque della Senna. Era il 1970. Tre anni più tardi, Ingeborg, a Roma, intontita da alcool e barbiturici troverà la morte nell’incendio accidentale della sua vestaglia dopo essersi addormentata con la sigaretta accesa. Non riuscirono a salvarsi i due poeti dall’isolamento radicale prodotto dall’angoscia. Solo nell’arte trovarono il linguaggio comune, quello della memoria, scoprendo le relazioni che solo il linguaggio invisibile della poesia può svelare:

Come Orfeo io suono la morte sulle corde della vita e fin dentro la bellezza della terra e dei tuoi occhi, che governano il cielo, so dire solo l'oscuro. Non dimenticare che anche tu, all’improvviso, quel mattino in cui il tuo giaciglio grondava ancora rugiada e il garofano dormiva sul tuo cuore, vedesti il fiume oscuro che ti passava accanto. Tesa la corda del silenzio sull’onda di sangue, afferrai il tuo cuore vibrante. Tramutati furono i tuoi riccioli nella capigliatura d’ombra della notte, i fiocchi neri delle tenebre caddero come neve sul tuo volto. E io non ti appartengo. Di entrambi ora è il dolore. Ma come Orfeo io so la vita dalla parte della morte e mi diventa azzurro l’occhio tuo chiuso per sempre. I. Bachmann