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VALERIA BIANCHI MIAN –“Horreur du domiciliee altri mostri”

sue irriverenti citazioni per capire cosa pensava dell’umanità e della vita. Il realismo esacerbato gli alienò la simpatia dei critici di un’America perbenista e puritana che si crogiolava nel “sogno americano” da lui impietosamente infranto e dissacrato.

Tutte le sue opere descrivono il mondo degli emarginati, dai barboni, alle prostitute, dai giocatori d’azzardo agli alcolisti, il suo universo è popolato dagli ultimi, non della sua scala valoriale, tanto che il tanfo dei bordelli ha un odore più allettante dei prati e delle case che odorano di pulito. Il suo è un messaggio chiaro e scomodo e quanto più sentiva il rifiuto da parte dei benpensanti tanto più si divertiva a provocare con il suo linguaggio scurrile e senza filtri. “La mia unica ambizione è quella di non essere nessuno, mi sembra la soluzione più sensata”.

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Voleva scuotere le coscienze, sottrarsi ai diktat della competizione e del successo che travolgevano e stravolgevano i rapporti, tanto da non riuscire a trovare un briciolo di umanità nella società dell’opulenza. “Passai accanto a duecento persone e non riuscii a vedere un solo essere umano”.

I suoi romanzi, racconti, poesie, aforismi sono un affaccio sulla mostruosità del degrado metropolitano, tra rifiuti e baracche sgangherate dove chi vive ai margini della società, nel suo niente riesce persino a cogliere barlumi di felicità. Solo i poveri riescono ad afferrare il senso della vita, i ricchi possono solo tirare a indovinare. Indipendente, anarcoide, il grande “Hank” ha percorso il suo viaggio esistenziale solo tra una folla di esseri stritolati nell’ingranaggio del conformismo, un inferno forse peggiore di quello da lui stesso sperimentato nei suoi vagabondaggi.

Horreur du domicilee altri mostri di VALERIA BIANCHI MIAN81

La paura è un’emozione di base. Il terrore risuona tra le genti e si diffonde: è un'antica musica noise che ci invita tutti alla fuga. Panico è il fuoco che si propaga nel bosco tra le foglie secche e i rami, lambisce gli zoccoli degli animali nella loro corsa verso ipotesi di salvezza. La paura, a volte, ci agguanta tra le mura domestiche, si rafforza, diventa un sentimento, stratificato in anatomie di memorie, sedimento che si fa mura e tetto, si accoccola nelle fondamenta. Sta nelle segrete dell’animo umano, la paura, è dama di compagnia dell’infelicità e dell’oppressione. Le oscure trame della storia familiare, i segreti delle bisnonne, i non-detti del trisavolo, i falsi ricordi del padre, le beghe della madre, le crudeltà tra fratelli si intrecciano, fili scuri nella tela delle Parche e abitano voci volti fotografie, il nostro stesso appartamento. Le ombre transgenerazionali ci avvolgono,

81 VALERIA BIANCHI MIAN (Milano, 1971) vive a Torino. Psicoterapeuta e psicodrammatista. Presidente di ARPE, Per la Ricerca in Psicologia d’Espatrio. Redattrice per Psiconline.it e Oubliette Magazine. Organizza la Rassegna Nazionale di Psicodramma e Sociodramma “L’Io e l’Altro”. Ha scritto Favolesvelte, Utero in anima, Non è colpa miae ha curato Poesie Aereee Una casa tutta per lei. Suoi articoli, poesie e racconti compaiono in diverse antologie cartacee e online.

concause, quando ci ammaliamo della maladie de l’horreur du domiciledella quale scriveva Bruce Chatwin.

L’irrequietezza è la forza propulsiva che ci spinge al dinamismo? Non sempre. In un articolo per la rubrica “Meditazioni Metafisiche” su «Oubliette Magazine» ne avevo parlato a lungo: «Accanto all’agio e al benessere che i più fortunati tra noi (quelli che possiedono, o possono usufruire di, uno spazio chiamato casa, ndr.) provano quando varcano la soglia, lungo i corridoi si riverbera un senso di angoscia che tocca i pavimenti e sfiora i muri, fino a raggiungere il soffitto viola che… Fino a scoprire che quel soffitto è un limite che esiste e persiste nelle profondità psichiche, nonostante i voli pindarici dell’anima sopra le foreste del possibile; è un tetto che forse ci rammenta la claustrofobia di un’antica dimora di carne e sangue. Dimora, vaso primigenio che ci ha tenuti dentro di sé, ventre che ci ha accolti a partire dall’idea nella mente dei nostri genitori fino alla cottura a puntino del neonato. Ci accomuna il terrore per la casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati) e ghignano degli stessi timori che proviamo di fronte alle cose della vita: attraverso i vetri, si possono scorgere i nostri traumi. Delitti e misfatti hanno un palcoscenico privilegiato nelle camerette e nei salotti; la violenza si gusta al meglio durante le cene di famiglia, prima di farsi conoscere altrove con nuove espressioni sociali, amplificandosi, con noi che assumiamo il ruolo di fruitori più o meno passivi quando non di agenti, persino assassini.»

Pensiamo al crollo della casa degli Usher nel racconto di Edgar Allan Poe, alle pellicole che girano e rigirano il coltello nel tema con titoli quali: La casa nera (Wes Craven), semplicemente La casa(Sam Raimi), La casa del diavolo(Rob Zombie) e così via. Non viene voglia di fuggire? Magari continuando, nel nostro nomadismo, a sognare le case avite, i luoghi archetipici che seducono dall’inconscio il nostro Io e lo chiamano con la voce dei fantasmi che ha cercato di dimenticare.

Scrivevo: «Nel liquido vivere contemporaneo, l’irrequietezza ci sembra abituale; nell’inquietudine di questi anni – e qui Zygmunt Bauman potrebbe concordare – non è strano sentirsi e riconoscersi fratelli senza fissa dimora, transitanti, persino apolidi». L’alternativa alla casa è dunque la fuga dal vaso, dall’utero, dal ventre della paura? La nostalgia è un rischio da cogliere, anzi è la norma. Per ogni Puer Aeternus che si rispetti è in arrivo Pothos - l'amore nostalgico - con lo sguardo rivolto all’indietro.

Nella prima sezione di Anatomia dell’irrequietezza Bruce Chatwin ricorda che: «Non molto tempo fa, dopo anni di vagabondaggio, decisi che era ora, non di mettere radici, ma almeno di farmi una casa. Pensai i pro e i contro di una casuccia imbiancata a calce su un’isola greca, di un cottage in campagna, di una garconnieresulla Rive Gauche, e di varie alternative tradizionali. Alla fine, conclusi, tanto valeva far base a Londra. Casa, dopotutto, è dove sono i tuoi amici. Consultai un’americana, veterana del giornalismo, che per cinquant’anni ha trattato il mondo come il cortile di casa sua. “Londra ti piace davvero?” le chiesi. “No” disse lei, con voce roca sigarettosa “ma Londra è un posto come un altro per appendere il cappello”».

Casa è quel luogo dove appendere il cappello - lo scrittore ci insegna a fare a meno della certezza, persino del cappello, poiché alla fine di tutto c’è l’ultima dimora, e a tenere in mano il copricapo sono gli altri, coloro che ci piangono chini sulla fossa. Ovviamente, la morte è soltanto un'altra soglia, quella che speriamo di varcare il più tardi possibile, mentre tra radici e fronde andiamo alla ricerca del nostro appendiabiti.

Per il marinaio, la casa è nave. Per la Baba-Jaga è isba che fugge con le zampe di gallina. Abitare consapevolmente lo spazio del desiderio e, al contempo, della nostalgia, è il compimento del rito di passaggio che ci porta dall’infanzia all’età adulta. Evolviamo nel transito oltre lo zerbino e nel ritorno: welcome and good-bye, casa dolce casa. Studi all’estero, matrimonio, trasferimento e – memento mori– il momento in cui raggiungiamo