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Jack Kerouac”

Desiderio di evasione, vagabondaggio ed erranza: il caso di Jack Kerouac di MARIA GRAZIA FERRARIS119

E sono uno straniero infelice/ contento di scappare per le strade del Messico I miei amici sono morti su di me, le mie/ amanti svanite, le puttane bandite, il mio letto sbattuto e sollevato dal/ terremoto –e niente erbasanta per uno sballo a lume di candela/ e sognare –solo spurghi d’autobus, ventate polverose, e cameriere che mi sbirciano/da un buco nella porta…. -Se mi ubriaco mi viene sete/–se cammino il piede mi cede –se sorrido la mia maschera è una farsa/-se piango non sono che un bambino ––se mi ricordo sono bugiardo/ –se scrivo la scrittura è passata ––se muoio il morire è finito–/ se vivo è appena cominciato ––se aspetto l’attesa è più lunga/–se vado l’andare è andato –-se dormo la beatitudine è pesa –/ mi pesa sulle palpebre ––se vado a un cinema da poco prezzo/ mi assalgono le cimici –I costosi non me li posso permettere/ –se non faccio niente niente fa. (Jack Kerouac, “Solitudine messicana”)

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I temi che Jack Kerouac propone in questa poesia-manifesto sono quelli disperati e inquieti, provocatori, della generazione beat, giovani che vivono in fuga, in una società in cui non riescono a credere, alla perpetua ricerca di una ragione per cui vivere e in qualcosa in cui credere. Certo, non era facile il passaggio dal Musical, dagli eroi buoni del Western, dal maccartismo, dai benpensanti e dalla voce di zio Frankie, alle visioni e alle esperienze di personaggi che avevano vissuto il riformatorio, l'ospedale psichiatrico, la galera… e che avevano alle loro spalle la guerra di Corea (1950-53) e sentivano avvicinarsi quella del Vietnam (1962-72).

Quella di Kerouac è un’esperienza letteraria (prosa e poesia) e anche pittorica (poco conosciuta) di grande impatto emotivo, scrittura che rivela stati d’animo allucinati, in un seguito di flussi e riflussi spezzati.

«Dipingo solo belle cose. Uso vernici da pareti e colla, uso il pennello e le punte delle dita. In pochi anni potrei diventare un pittore di primo piano. Se lo voglio. E quando potrò vendere i miei dipinti potrò comperarmi un pianoforte e comporre musica. Perché la vita è una noia» (Mexico City, ottobre 1956) disse J. Kerouac sulla sua pratica pittorica.

Non lo volle davvero e preferì affidarsi soprattutto alla penna. Ma per tutta la vita continuò a tradurre in segni e colori la sua visione del mondo, rovente, allucinata e ansiosa di salvezza.

Nelle sue opere tra dipinti e disegni, spicca la personalità fuori dagli schemi, anarchica e tragica dell’autore di Sulla strada e Big Sur: In realtà esse sono parte essenziale di quel fenomeno potente che è stato Jack Kerouac, come fossero membra di un unico corpo, così dinamico e vorticoso da aver bisogno, per esprimersi, di una molteplicità di strumenti. Kerouac rivela una vena espressionista persino in anticipo sui tempi, una sorta di colta

119 MARIA GRAZIA FERRARIS (Castelletto Ticino, NO, 1943) si occupa prevalentemente di critica letteraria. Ha pubblicato il saggio Volevo scrivere, la letteratura femminile del primo Novecento(2017), Marina Cvetaeva, ma non è forse anche l’amore un sogno? (2018), Una straordinaria generazione(la Milano poetica degli anni Trenta)(2018). È collaboratrice del blog letterario «Alla volta di Lèucade», «La presenza di Erato», «Il Porticciolo» (La Spezia). Ha pubblicato le sillogi poetiche: Di Terra e di acque(2009), Aprile di fiori(2013), Itinerari (forse) desueti(2019) e varie raccolte di racconti. Si è occupata dell’opera di Gianni Rodari pubblicando G. Rodari, un fantastico uomo di lago(2010) e La luna giocosa: G. Rodari e Italo Calvino. Leggerezza ed esattezza(2017), Vado via coi gatti(2019). Vincitrice e finalista in concorsi letterari e poetici. Alcune delle sue poesie e dei suoi racconti sono stati pubblicati in volumi antologici.

naivetéche fa risuonare le sue opere come preludi di quel ritorno alla pittura che segnarono gli anni ‘80.

Non era facile accettare un romanzo (e infatti fu respinto dagli editori per molti anni) come On the road, scritto su un rotolo di carta da telescrivente, portato nello zaino per sei anni in giro per quell'America che dovrà rassegnarsi a fare i conti con il cataclisma che la sconvolgerà. Ma i beats, i “battuti”, (così li definivano in senso dispregiativo, facendo riferimento alla loro presunta instabilità, all'uso abituale di marijuana, al disprezzo per l'ordine costituito) non furono battuti né vinti. Andarono avanti incoraggiandosi a vicenda, trovando sostegno l'uno nell'altro, rifuggendo quella pubblicità negativa che li voleva a ogni costo annientare. "Beat”“ - diceva Kerouac – “vuol dire beatitudine, non battuto".

Questa seconda accezione, gli viene chiara durante un pomeriggio «nella chiesa della mia infanzia… e a un tratto con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro, il silenzio della chiesa… ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parole “Beat”: la visione che la parola Beatsignificava beato». Beatè ribellione. Beatè battito. Beatè ritmo. Quello della musica jazz, che si ascolta in quegli anni, quello del be-bop, quello della cadenza dei versi nelle poesie. Beatè la scoperta di se stessi, della vita sulla strada, del sesso liberato, della droga, dei valori umani, della coscienza collettiva. Nel ventennio che segna l'avvento e la crescita della Beat Generation accadranno molte cose: dalla bomba atomica alla guerra del Vietnam. In mezzo scorreranno i movimenti della rivendicazione razziale e pacifisti. Essenziale è l’elemento biografico: era nato in una famiglia franco-canadese di origini bretoni, intrisa di cattolicesimo tradizionale e insieme segnata dall’alcolismo del padre e della madre e soprattutto dalla morte del fratello maggiore Gerard, a 9 anni, una morte di cui Jack si sentirà in qualche modo colpevole: un senso di colpa che riversa nei libri (Visioni di Gerard) e nell’arte. Il fratello diventa l’angelo o l’Ecce Homo, lui è Giuda. L’amico Allen Ginsberg osserva come Kerouac negli ultimi anni fosse ossessionato dal Calvario e racconta la sua autodistruzione attraverso l’alcolismo come una sorta di espiazione: una salita sul calvario più che una discesa agli inferi: «Quando beveva stava subendo la crocifissione nella mortificazione del suo corpo». In questo irriducibile contrasto tra «la visione estatica dell’esistenza» e «la percezione» della quotidianità «come via crucis» si consumano la pittura, la scrittura ovvero la vita di Jack Kerouac, il “santo bevitore”. Dietro ogni tramonto, ogni alba e ogni viso si nasconde un possibile segreto, il modo più sincero e umano è rincorrerlo, stracciare il velo di Maya fra l’esistenza e il suo limite di comprensione. Prima che le luci si spengano e le notti in carrozza siano fredde, le botte più forti. Dove c’è significato c’è vita, oltre quello solo la strada può dare una risposta.

«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati» «Dove andiamo?» «Non lo so, ma dobbiamo andare».” (JACK KEROUAC, On the Road)

Sulla stradadi Kerouac è un romanzo che andrebbe letto più volte nell’arco della propria vita. Probabilmente è l’opera principale della beat generatione l’iniziazione della cosiddetta “prosa spontanea”, che abbatteva tutte le barriere ritenute essenziali dai dotti e noiosi scrittori, incitando a scrivere in maniera aperta e libera. Nasconde significati ed emozioni comprensibili solo nel tempo: a sedici anni se ne scopre il furore e la voglia di vivere propria dell’età giovanile; sfogliandolo intorno ai trent’anni se ne può cogliere la grande forza rivoluzionaria ma anche la straziante sensazione di un tracollo finale, la sconfitta dell’individuo dinnanzi alla società; riprendendolo in mano più tardi può avere, forse, il sapore dei rimpianti, dell’inadeguatezza e, probabilmente, anche della compassione.

Sulla strada è un romanzo nato on the road, come dice il titolo stesso, e racconta le esperienze di viaggio fatte da Sal Paradise (Jack Kerouac) e Dean Moriarty (Neal Cassady) lungo le infinite strade degli Stati Uniti d’America, da est a ovest, da nord a sud, più volte, senza mai stancarsi, fino a toccare i territori più selvaggi e meno contaminati del Messico. In quasi quattro anni di spostamenti, intramezzati da brevi ritorni alla “vita normale”, Paradise e Moriarty vivono la strada e lo spirito più profondo dell’America alla maniera degli hobo, vagabondi e homelessvolontari che fanno del movimento attraverso mezzi di fortuna e della sussistenza tramite lavori occasionali un vero e proprio stile di vita.

Un resoconto di viaggio, dunque, ma anche un manifesto di rivolta, di opposizione all’idea di quell’America più bigotta e intollerante: non a caso Sulla stradaè considerato uno dei testi cardine della beat generation, di cui Kerouac e Cassady fecero parte insieme ad altri noti scrittori quali, per esempio, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti.

Poi ci sono i quadri. I lavori pittorici, poco conosciuti, sono stati esposti solo a Parigi al Centre Pompidou e nel 2013 a Locarno. Da ultimo a Varese (Ma*ga Gallarate). Il titolo scelto è «Kerouac. Beat Painting» perché numerosi sono i riferimenti alla cultura beat, da Robert Frank a William S. Burroughs, riconoscibili all’interno dell’intero percorso espositivo, scandito all’inizio da due diversi sguardi alla vita pubblica e intima dell’artista con i suoi ritratti di Truman Capote, Joan Crawford e del Cardinal Martini, e con la sezione «Visioni di Jack» che raccoglie una serie di disegni di ispirazione religiosa. Anche nella sezione dedicata ampiamente all’Espressionismo astratto sono leggibili le sue frequentazioni, prima fra tutte l’amicizia con il pittore Stanley Twardowicz, suo vicino di casa dopo il trasferimento a Northport, con Dody Muller e in generale con la cosiddetta Scuola di New York.

La relazione tra Kerouac e l’Italia è ricordata da una selezione di fotografie scattate da Robert Frank e da Ettore Sottsass alla moglie Fernanda Pivano, ad Allen Ginsberg e allo stesso Kerouac, e da una testimonianza di Arnaldo Pomodoro.

I dipinti dai colori accesi e dalle forme movimentate nella tradizione della cultura visiva americana, sono un confronto con gli altri autori Beat(Allen Ginsberg , William Borroughs, con la pittura informale e con la Scuola di New York, quella di de Kooning) a cui Kerouac si avvicinò a metà degli anni ’50. Espressionista e radicale Kerouac, più moderato – potremmo dire più europeo – Ferlinghetti, i cui lavori migliori per intensità e tecnica appaiono quelli realizzati negli ultimi quindici anni.

«La forza di queste opere risiede soprattutto nell’identità totale che Kerouac seppe condensare tra vita, produzione letteraria e ogni altra espressione creativa come la musica,