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MASSIMO BELLUCCI – “Andarsene a piedi”

Sfilano nelle pagine di Montandon passeggiate educative e passeggiate archeologiche, passeggiate artistiche e passeggiate amorose o erotiche, passeggiate che sono veri e propri pellegrinaggi tra i fantasmi della storia esaltata dall’immaginazione e dalla fantasticheria, come punto di partenza «della meditazione sulla reversibilità del tempo, della fragilità dell’esistenza, sui costumi e sulle culture passate».

Ecco la calca rumorosa delle Tuileries, nel XVII secolo, una straordinaria parata di atteggiamenti stereotipati, chiacchiere e nuvole di polvere. Ecco gli itinerari bucolici di matrice classica che fanno emergere il buon selvaggio di Rousseau insito nell’animo umano, ecco le passeggiate dei turisti sognatori del XIX secolo, tra curiosità e misteri di una nuova realtà da scoprire, quando il grande spazio urbano sostituisce per il sognatore la natura e quando lo sguardo del flâneursi lascia trasportare dal flusso continuo sulle strade.

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Il tragitto dalla passeggiata alla flânerieè connesso allo sviluppo della civiltà urbana e non può fermarsi alle conclusioni provvisorie di quel geniale flâneurche fu Walter Beniamin. Dice Montandon che, nell’epoca delle zone pedonali, la flânerienon è del tutto sparita e altre forme (come quelle di Breton o di Handke) hanno sostituito «il flâneurche appare come la coscienza involontaria della modernità, figura paradossale dell’osservazione e dell’indifferenza, dell’analisi e della disinvoltura, dell’individuo e della folla, figura vaporosa di un’identità in crisi, sommersa dalla ricchezza di un nuovo ambiente e perduta nel vuoto creativo dalla distanza dei miraggi spettacolari».

La flânerieha ancora un senso in un mondo in cui il tempo lavorativo ha inglobato tutto? Baudelaire aveva capito l’antifona: «Un tempo i bighelloni che camminavano dolcemente sui marciapiedi e si fermavano un po’ ovunque, davano al flusso umano una dolcezza e una tranquillità perse. Ora c’è un torrente in cui siete avvolti, respinti, sbattuti a destra e a sinistra».

“Andarsene a piedi” di MASSIMO BELLUCCI78

Uscire di casa a piedi con l’idea di esplorare per qualche giorno la provincia che pensiamo di conoscere, che abbiamo attraversato spesso in automobile, i cui territori abbiamo visto tante volte, senza mai guardarli veramente.

Lasciarsi alle spalle i punti di riferimento di una giornata scandita da risveglio, colazione, lavoro, rientro, riposo e così via, sopra una catasta di minuti che diventano ore mesi e anni, appesantendosi.

78 MASSIMO BELLUCCI (Corinaldo, AN, 1969) è insegnante e operatore culturale. Ha pubblicato alcuni saggi storici in riviste specializzate e alcuni racconti in diverse raccolte. Ha coordinato numerosi progetti di valorizzazione delle memorie storiche delle Marche, ha la passione del camminare.

Andarsene a piedi: perché proprio il camminare implica una perdita di equilibrio, staccare un piede da terra, coprire una distanza aerea, lasciando il peso del corpo su un solo piede in una postura complessiva un po’ sbilenca in avanti, per poi appoggiarlo nuovamente, cercando di non cadere, poi ancora un altro e un altro ancora. Cosa succederà? Potrebbe piovere, potrei fare una storta, potrei avere fame o sete con il prossimo paese ancora lontano, potrebbero venirmi le vesciche, potrebbero assalirmi tanti dubbi, potrei avere paura: ecco cos’è andarsene a piedi.

Sapendo di essere a corto di significati, camminare è un esercizio di umiltà, che io, con Elena, mia compagna di viaggio (e non solo), abbiamo intrapreso innescando ancora una volta una sfida impossibile con gli ingranaggi del tempo.

E dopo qualche ora di cammino vedi il paese vicino nel quale sei andato innumerevoli volte per lavoro o per una pizza; si materializza quel grumo di palazzi finestre e tetti nel loro atavico assetto, con la torre che svetta indicando l’antico orgoglio di essere stata una vera città. Alla fine ci entriamo, la attraversiamo facendoci a sua volta attraversare da esso, poiché averla raggiunta a piedi l’ha resa più nostra. Possiamo comunicare silenziosamente col selciato e con il manifesto scollato della svendita di un mobilificio, siamo in empatia con l’indicazione blu di senso unico e con il frontale marmoreo ingrigito di un palazzo signorile che raffigura un volto leonino la cui criniera assomiglia alle ali di una farfalla.

Gli anziani ci salutano, qualcuno ci chiede da dove veniamo, giovani ci ignorano.

Non bisogna arrivare in Patagonia uscire da una stanza esistenziale senza finestre, ma i cui mattoni sono le nostre abitudini, che assumono la forma di antiche mura insormontabili.

Proseguiamo cercando di evitare le strade asfaltate, scrutando un po’ la direzione: dopo questa vigna ci sarà un fosso? Questo sentiero sbuca da qualche parte o finisce in un casolare?

E via, lasciando Ripe, Ostra, di collina in collina, attraverso Belvedere, fino a Jesi. E anch’essa ci dà nuove emozioni, pur abitando a poche decine di chilometri non ero mai entrato a Palazzo Pianetti.

E il giorno dopo, ancora zaino in spalla immersi in un’alba che bagna l’aria di solerte attesa. I suoni della cittadina si allontanano, l’asfalto sparisce, la strada diventa stradello, lo scricchiolio della ghiaia sotto gli scarponcini, o il lieve tonfo della terra del sentiero diventano le nostre lancette del tempo, che spesso rincorriamo senza mai raggiungerlo, adesso è invece un silenzioso compagno di viaggio, camminando verso Osimo, poi verso Recanati, poi Loreto, poi chissà, finché non ci stanchiamo, finché la schiena regge, finché non avremo trovato qualche risposta, rimessa subito in discussione da una nuova domanda che dalla mente emergerà, alleggerendoci, lungo la strada, di qualche roccioso pensiero che non vuole frantumarsi, ma lungo il cammino diventerà ghiaia che altri piedi calpesteranno.