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Emerico Giachery”

Wandererdel paesaggio, ma più della parola e dello spirito: Emerico Giachery di DOMENICO DE FELICE136

Erranza, erranti, vagabondaggio, vaganti, viandanti, pellegrini e tanti altri termini, sinonimi di cui la nostra bella lingua è ricca, sono stati e sono in letteratura temi di vasta e suggestiva portata.

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Tra gli autori di nostra conoscenza che li hanno usati e praticati a livello fisico e mentale, cioè, percorrendo territori reali e della fantasia, c’è senz’altro Emerico Giachery, wanderer per eccellenza fisicamente e ancor più del pensiero e della parola.

Non c’è una sola sua opera che non risponda a temi o aspetti inerenti il “desiderio di evasione, vagabondaggio ed erranza”; ciò che di lui più affascina - giacché il primo ad essere sedotto è proprio lui - è la parola in sé, il suo potere che attrae come calamita, che “chiama, e preme per l’ansia di generare musica di pagine tutte ancora da immaginare”. Il suo, per certi aspetti, è un cammino dantesco della memoria e del cuore, attraverso il quale incontra, e ci partecipa, una schiera infinita di personaggi, poeti e filosofi, scrittori e musicisti, pittori, artisti, santi, che hanno lasciato eredità, oltre che di sapere, di “caldi sensi”, tanto per citare il grande Foscolo.

L’uomo - afferma Giachery - non solo ha il diritto di abitare poeticamente la terra; ha anche il dovere di contribuire, col suo operato, al progresso umano e sociale. Questo compito spetta a chiunque, qualunque sia il suo lavoro, la cultura, e senza neppure, a volte, la fatica di preparare progetti, perché si può partecipare anche con una sola “iniziativa gentile, un gesto di solidarietà, di condivisione, una parola di incoraggiamento, un sorriso di benevolenza”. Da condannare è solo il Male fatto con intenzione, con crudeltà, e non solo verso l’uomo, ma verso la Natura in genere, animali e piante compresi. Giachery è sulla stessa lunghezza d’onda di chi, anche nell’antica Grecia, considerava il Bene come Bellezza e Luce e il Male come tenebra.

Le opere di Giachery non hanno ombre, se non quelle poetiche che contribuiscono all’armonia e alla esaltazione della luce. Ombre paradisiache, dantesche. Alighiero Cusano è nel vero quando afferma che in Giachery manca l’ombra e il negativo, manca il soggetto e la conseguenza di tutto ciò che è il contrario del positivo. Quelle di Giachery sono opere come soli che emanano luce di grazia e di poesia attraverso le parole degli uomini grandi; son frutto di letture approfondite, di amore alla parola di un interprete che sa scavare nelle opere altrui fino a trovare e riportare in superficie, per regalarcele, le più belle pepite, le pietre preziose della sapienza d’ogni tempo.

Giachery è un “errabondo” della parola (e non solo, se un bel momento confessa che in lui sonnecchia “un cavaliere errante” nel “cammino dei pensieri”). Il suo è un linguaggio lungamente e sostanzialmente concimato dall’humus culturale e secolare dell’intera Europa. Amante nella realtà di campi e verdi prati, di montagne, di paesaggi veri o metafisici descritti dai poeti e immortalati dai pittori, sublimati dalla musica, egli trasporta nella sua scrittura tutto il pathos e le interiorità di cui si sente fermentato. Viandante nel reale e nel fantastico, la cui lingua interpreta continuamente vissuto e letteratura e arte: un continuo ardente crogiuolo di “strati psichici”, umorali, che sazia pur aumentando in noi fame e ingordigia.

136 DOMENICO DEFELICE (Anoia, RC, 1936) vive a Pomezia (RM). Poeta, scrittore, giornalista e saggista, collaboratore di numerose testate tra cui «Nuova Antologia», «Pietraserena», «La Voce di Calabria», «La Voce Pugliese», «Il Corriere di Reggio», «La Procellaria», «Alla Bottega», «La Voce del Mezzogiorno», «Cronaca di Calabria», «Minosse», «Aspetti Letterari», «La Gazzetta Ciociara», «La Sonda», «Luce Serafica», «Satura», «Vernice» e per quindici anni del quotidiano «Avvenire»; attualmente dirige il mensile «Pomezia-Notizie».

Giachery non ha mai voluto essere definito critico; modesto com’è, ha sempre affermato di non averne a sufficienza le qualità che un vero critico debba possedere, tra le quali la passione e l’interesse; preferisce lo si ritenga un “interprete”, un “esecutore”, anche perché - com’egli riporta da Luigi Pareyson , «”Leggere significa eseguire” e “l’opera non ha altro modo di vivere che la vita dell’esecuzione”». Ed egli ha sempre prediletto la lettura della poesia a voce alta, o, meglio, la recitazione. In lui si sono sempre incontrate e fuse “filologia ed ermeneutica”, in un incalzare fascinoso di autori e di citazioni che colmano il cuore e poi la mente di chi legge e di chi ascolta; non si ha il tempo di delibare il già offerto, che altri autori e altri brani ci avviluppano in un’atmosfera di armonia, di delicatezza e di sapienza.

Giachery è lettore “spirituale”. “Non mi lascio certo spaventare dalle parole né da chi si spaventa per le parole, e vado dritto per la mia strada, tanto più cara quanto più personale e appartata. In questo caso la qualifica di spirituale condensa per me più d’un aspetto della comunicazione didattica. Mi limito qui a chiarire un solo aspetto centrale. Ciò che quel termine può significare nel momento dell’incontro col testo poetico, molto meglio me lo fissano le parole di un indimenticabile pensatore e amico, Rosario Assunto: “sempre altro dice la poesia, ad ascoltarla e a leggerla; proprio perché eccede rispetto alla comunicazione, e per questo acquista quel senso [...], che ci solleva al di sopra della nostra umana caducità” Ecco: di quel “senso”, nell’interpretazione della poesia (ma non soltanto in quella!), vorrei essere stato, qualche volta almeno, docile e fedele messaggero”. Ma precisa che la luce che il lettore spirituale trasmette non è mai la propria, ma quella intima dei testi: “Ho detto qualche volta, in modo certo troppo semplicistico ma forse efficace, agli studenti, che noi siamo arpa eolica di un’arpa eolica: quella dei testi, la quale a sua volta fa vibrare folate del gran vento dell’esistenza. Se poi l’esistenza, come tendo a credere, si fonda e s’avvalora nell’Essere, un’eco sia pur tenue e remota di quell’Essere deve pur sussistere nelle grandi voci della poesia e del pensiero, e fondarle. A quell’eco, forse, al nostro sintonizzarci con essa mediante gli strumenti offerti dalla filologia, dalla sensibilità del gusto, si deve in parte la gioia che scaturisce dalla trasmissione interpretativa di un testo poetico che ci attraversa e trascende. Gioia, anche, di una vittoria sul silenzio e sul nulla, ottenuta con far rivivere attraverso il testo vita e storia in esso coagulate, gioia come di proustianotemps retrouvé”.

Colpisce il suo racconto colloquiale; è come se lo scrittore stesse attorniato da una schiera di amici, o meglio di allievi, e con loro ragionasse piano e suadente, sommergendoli e incantandoli col continuo fluire delle immagini e l’affacciarsi via via di personaggi famosi, a volte da lui conosciuti di persona, più spesso amati, perché in sintonia perfetta con le loro pagine, con i loro pensieri. Sotto un tale aspetto, a proposito, cioè, dei tanti autori che s’incontrano, i suoi meravigliosi libri sono, ciascuno, “una densa rassegna”; tutti gli scrittori,

i poeti, gli artisti citati o ricordati, sempre mi danno - afferma Giachery “qualche motivo che

consuona nel profondo con quello che vado cercando”.

Il suo è un linguaggio forbito, netto, limpido, senza ombra alcuna di astrusità; in lui è assolutamente assente il fumo di certi nostri critici osannati; i poeti ai quali si accompagna son noti in tutto il mondo e gli basta appena un cenno, o il riporto di pochi versi, per caratterizzarli, darci di loro contorni perfetti. Nei testi abbiamo, spesso, affascinanti e magiche digressioni, a volte così lunghe e intense, che affabulano lo stesso autore, costretto a ritornare indietro e riprendere il discorso: “Riprendiamo contatto col titolo”; “Torniamo ai giorni nostri”; “Torniamo un attimo a Calvino”; “Tornando a Petrarca”; “Ma torniamo ai “Quaderni di Poesia””; “Torniamo per un momento in Francia”… Egli precisa più d’una volta che le sue sono divagazioni e che ha avuto sempre e continua ad avere, della poesia, una “concezione (…) profondamente spiritualistica e orfica”.

Giachery si sofferma su termini fascinosi come “leggerezza”, anche in contrapposizione a “pesantezza”, attraverso, naturalmente, i suoi tanti amati autori (Calvino - in particolare , Savinio, Montale, Petrarca, Leopardi che, secondo Calvino, “nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, soprattutto la luna”; o come “luce”, “spesso con significato spirituale”, e sempre con l’apporto dei suoi amati poeti (Ungaretti, per esempio, Comi, Viviani e, naturalmente, Dante e Petrarca), nonché pittori quali Caravaggio, Monet, Simone Martini e la poesia alta di Luzi, affermando che “non è facile dissociare la luce dal senso del divino e dell’assoluto”. Compito assai arduo, che Giachery riesce a risolvere, perché uno che ama profondamente la poesia; egli stesso ci ricorda quel che diceva Paul Valéry: “a chi non ama profondamente la poesia dovrebbe essere proibito di occuparsene”.

Giachery si commuove e commuove; attraverso tutte le sue opere - La vita e lo sguardo, per esempio(Fermenti, 2011); Passione e sintonia (Carocci, 2015); La parola trascesa e altri scritti(Aracne, 2020); ma anche Voce del tempo ritrovato(Edilazio, 2010); Villa Fiorelli e dintorni. La scoperta della montagna (All’insegna dell’occhiale, 2010); Il canto XIII dell’Inferno, Il canto X del Purgatorio, Il canto III del Paradiso(All’insegna dell’occhiale, 2008, corredata anche da CD) eccetera trasmette gioia piena e una tale commozione è come salire fino all’empireo, indiarsi, spiccare veramente “il volo verso i cieli dell’Essere”.