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da Ulisse a Herman Hesse”

uomo di colore in canottiera con le braccia alzate e un’espressione di sforzo, un corridore si direbbe a prima vista, nella seconda foto invece si scopre che l’uomo aveva alzato le mani di fronte a un poliziotto che gli stava sparando in quell’istante e che l’espressione sul volto era appunto di dolore. Anche in quest’ultimo dialogo viene esaltata la dicotomia tra realtà e apparenza, tra superficialità e ricerca della verità. “Diffidate dai pezzi scelti”, non a caso, è la didascalia che accompagna le due foto. Il protagonista durante la cena rivela quindi un importante segreto: egli stava scrivendo un romanzo in cui un uomo è alla ricerca di un suo amico in viaggio in India, che però non vuole essere trovato e immagina che egli si trovi nel medesimo ristorante assieme a una donna e che lo stia guardando da lontano. Come in un gioco di specchi si intuisce dal dialogo che Xavier non esiste, o meglio, che non era altro che l’alter ego del viaggiatore alla ricerca di se stesso. Il viaggio geografico attraverso Bombay, Madras, Goa è diventato sempre più un viaggio interiore in cui la dimensione del reale assume i connotati più inquietanti di un sogno, di una visione notturna a cui allude il titolo. Il viaggio compiuto dal viaggiatore-Xavier è quindi un viaggio introspettivo in cui narratore, protagonista e l’oggetto della “quête” in quella che potrebbe essere una guida per «un qualche amante di percorsi incongrui».

Bibliografia

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ABBAGNANO NICOLA; FORNERO G., Fare filosofia, Paravia, Torino, 2001. BERNARDELLI A.; CESERANI REMO, Il testo narrativo, Il Mulino, Bologna, 2005. DE CRISTOFARO F. (a cura di), Letterature comparate, Carocci, Roma, 2014. FERRONI GIULIO, Letteratura italiana contemporanea, Mondadori, Milano, 2015. LUPERINI RENATO, La scrittura e l’interpretazione, Il Novecento, Palumbo, Palermo, 2011. TABUCCHI ANTONIO, Notturno indiano, Sellerio, Palermo, 1984. TABUCCHI ANTONIO, Viaggi ed altri viaggi, Feltrinelli, Milano, 2010.

La dialettica fra errare e ritrovarsi come essenza di tutte le storie: da Ulisse a Hermann Hesse di FILOMENA GAGLIARDI138

L’Odissea è il lungo viaggio di ritorno a Itaca di Odisseo. Secondo un’etimologia, oggi non più considerata valida, Odisseo significherebbe “colui che segue la via”, derivando dal greco οδός (strada, via) e σεύω (seguire, inseguire). Anche un’etimologia sbagliata, tuttavia, racconta qualcosa, ad esempio come un concetto venga percepito. E che Ulisse incarni il mito del viaggio, nessuno lo mette in dubbio.

Nemmeno le altre etimologie del nome più accreditate (ma comunque sempre insicure) sono esenti da un collegamento più o meno diretto con la nozione del viaggio. Nel noto dizionario etimologico di Chantraine si legge che Odisseo sarebbe riconducibile a un verbo [ὀδυσ(σ)άσθαι] il cui significato è odiare/essere odiato.

138 FILOMENA GAGLIARDI (San Benedetto del Tronto, AP, 1980), vive a Colli Del Tronto (AP). Si è laureata in Lettere classiche e ha ottenuto il dottorato di ricerca in Filologia classica. È insegnante di materie letterarie nelle scuole secondarie. Ha collaborato con associazioni culturali e con l’Università di Macerata, partecipato a convegni come relatrice e pubblicato contributi su varie riviste specifiche. In volume ha pubblicato: Tempo e Amore -in una stagione di prosa(2008), Un nuovo anno(2009) e la silloge poetica De viris illustribus (2021). Suoi contributi si ritrovano nelle riviste «Qui Libri», «Euterpe», «Oubliette Magazine». Ha avuto vari riconoscimenti letterari e ha pubblicato in diverse antologie.

Odisseo odia i nemici che incontra, che gli impediscono di tornare a casa (ad esempio il Ciclope) o di recuperare il suo trono (ad esempio i Proci); ed è odiato da Poseidone in quanto ne ha accecato il figlio. L’odio, sia provato che subìto, ostacola il ritorno effettivo al suo ruolo di re, arrecandogli dolore. Odisseo è in questo poema l’eroe che non torna, quindi è l’eroe compianto e che compiange. Anche se non è plausibile riconnettere l’etimologia di Ὀδισσεύς e ὀδυσ(σ)άσθα ad ὀδύνη (dolore) e ὀδύρομαι (lamentarsi), sta di fatto che, al di là delle assonanze, l’effetto della lunga e faticosa peregrinatiodi Ulisse è questo.

Odisseo è sempre in fuga perché desidera tornare a casa. Diversi eventi contrari lo costringono ad arrendersi, a procrastinare il suo ritorno, a restare lontano da Penelope. Va anche detto, però, che l’altra peculiarità di Ulisse è quella della curiosità, del desiderio di conoscere. Questo elemento, in molti casi, gli complica la vita perché lo allontana dal suo obiettivo. E lo rende anche un po’ temerario, come non si può non ricordare, ad esempio, dall’episodio del Ciclope: “Allora i compagni prima di tutto mi pregarono con parole / che tornassimo indietro dopo aver preso i formaggi, e poi / dopo aver cacciato via rapidamente dai recinti capretti e agnelli, che navigassimo sull’acqua salata; ma io non detti ascolto ― e certamente sarebbe stato molto meglio ―, / affinché potessi e vedere lui e vedere se mi avesse dato doni ospitali”.

Cosicché, a ben vedere, Ulisse sembra attraversato da una dialettica: da un lato vorrebbe tornare, dall’altro vorrebbe restare in giro. Da un lato il viaggio, il νόστος, è strumento di recupero della propria sede, dall’altro è strumento di perdizione, una sorta di viaggio del viaggio. In Ulisse, così, viene vissuto il contrasto fra il voler tornare e i voler restare in viaggio.

Errare significa, sia in latino che in italiano, andare in giro senza una meta e perdersi; metaforicamente giunge a significare sbagliare. E diverse volte Ulisse si perde, ma poi si ritrova. Nel perdersi è ammesso sempre un ritrovarsi, inteso anche come conoscenza accresciuta. Su questo punto si potrebbero citare numerosissimi esempi, uno su tutti l’episodio delle Sirene nel canto XII, ma basta già leggere l’incipit del poema per averne contezza: “Narrami Musa l’uomo multiforme, il quale / moltissimo andò errando / dopo che ebbe distrutto la sacra rocca di Troia; / di molti uomini vide città e conobbe il pensiero; / molti dolori patì sul mare nel suo animo, / per conquistare la propria vita e il ritorno dei compagni”.

Attraverso il suo errare, per quanto doloroso e rischioso, Odisseo conosce luoghi e persone. Risulta significativo rilevare che il verbo impiegato da Omero per “errare” è πλάζω etimologicamente connesso con il latino plango che può significare battere/battersi in petto/agitarsi, valenza, quest’ultima da riconnettersi con la nozione dell’infrangersi dell’onda. E le onde sono un nemico del navigante Ulisse: il mare è Poseidone, il mare è il luogo da attraversare per tornare ad Itaca, ma è anche il luogo che ostacola la prosecuzione del viaggio. Del resto, senza le sue peripezie, non ci sarebbe l’Odissea. Cosa racconterebbe ad Alcinoo o a Penelope? Περιπέτεια, composta da περί+πίπτω, è il “cadere intorno” a sé stesso, ovvero il sovvertimento di qualcosa: siamo ancora nella sfera nell’errore e dell’errare, del perdersi attorno a qualcosa senza meta. Siamo ancora nelle complicazioni degli intrecci. Senza gli intrecci non ci sarebbero le storie. La vita, raccontata al puro livello della fabula, non reggerebbe le sfide dei secoli. Non deve essere del resto casuale se nel linguaggio della narratologia molti termini siano mutuati, in chiave metaforica, dalla sfera semantica del camminare: intreccio, percorso, trama, digressione, excursus e lo stesso termine peripezia poco sopra richiamato. Ancora si parla di letteratura di evasione, da evadere, andare via in senso traslato. Ognuno di questi meriterebbe una trattazione più sistematica.

Il mito di Ulisse è il modello di tutte le storie di viaggio e di tutte le storie tout court. Ogni storia è un percorso di ricerca che racconta la vita degli uomini; gli uomini agiscono, e senza movimento non ci sarebbero vite da raccontare. I movimenti non devono essere per forza reali: è possibile, come Emily Dickinson , viaggiare pur restando sempre seduti nella propria stanza a leggere. Anzi, secondo il poeta turco Nazim Hikmet, “Il più bello dei mari/è quello che non navigammo”. Il vero viaggio, la vera erranza, la vera evasione sono date dall’immaginazione. In questi inciampi l’uomo si salva dalla dimensione lineare che conduce alla morte, e permane nella dimensione circolare che avviluppa e accresce in un attimo d’eterno. L’immaginazione permette di non raggiungere mai la meta immaginata, ma nel frattempo consente di sognare opportunità sempre più belle, evasive rispetto al quotidiano: in questa evasione dal reale l’uomo è eterno, perché vive circostanze che, in quanto immaginate, non rispondono alle categorie del prima e del dopo.

Dante, che pure chiamerà “folle” il volo di Ulisse, non potrà che rispondere immaginando per sé un altro viaggio, una sorta di allontanamento rispetto “alla diritta via” che “era smarrita”. Eppure solo per merito di questa fuga Dante ritroverà sé stesso attraverso la visio Dei, non prima di aver imparato a sua volta dalle anime incontrate.

Attraversando rapidamente i vari secoli della letteratura, c’è un autore che ha fatto del vagabondare, anche reale, un modus vivendi, una strategia per evadere dal perbenismo dell’Occidente e ritrovarsi nell’autenticità dell’Oriente magico. Sto parlando di Hermann Hesse, autore tedesco vissuto tra il 1877 e il 1962. Hesse meriterebbe un saggio a parte: qui mi limiterò a dire che sia nei titoli delle opere, pensiamo a Pellegrinaggio d’autunno (edizione tedesca Eine Fussreise im Herbst uscita nel 1906) e Vagabondaggio (edizione tedesca Wanderung apparsa nel 1920), sia in alcuni protagonisti, pensiamo a Peter Camenzind, a Knulp, a Siddharta (i romanzi omonimi escono in lingua originale rispettivamente nel 1904, 1915 e 1921), il tema del viaggio è centrale, o meglio esistenziale. Nella lacerazione che esiste nella riflessione hessiana tra individuo e società conformista che opprime, l’unica via di salvezza è non restare ingabbiati e statici nel posto che essa ci assegna, ma immettersi in un cammino perenne. Il viandante hessiano può sentirsi un perdente rispetto alla società, ma non è perduto di fronte a sé stesso: anzi può ritrovarsi solo nella nebbia, organo assoluto di verità, simbolo della solitudine della condizione umana: “È sempre straordinariamente toccante vedere come la nebbia separi tutto ciò che è vicino o apparentemente affine, come avvolga e racchiuda ogni figura, rendendola inevitabilmente sola”. Il viaggio per Hesse, anche quando reale, consente anche un viaggio dell’anima. Per Hesse quindi il vagabondaggio è una condizione esistenziale, destinata a non finire mai.

Anche di Ulisse sappiamo che forse, una volta a casa, ripartirà. Tuttavia penso di poter affermare che nell’eroe greco il viaggio assuma più un valore cognitivo: infinito come la conoscenza. I Greci sfiorarono soltanto il concetto di infinito, per loro segno di imperfezione. A un certo punto Ulisse deve pur giungere a una destinazione. I Greci però teorizzarono