RIVISTA DI POESIA E CRITICA LETTERARIA “EUTERPE” APERIODICO TEMATICO DI LETTERATURA ONLINE NATO NEL 2011 ISSN: 2280-8108 N°33 * LUGLIO 2021 * – WWW.ASSOCIAZIONEEUTERPE.COM
sfruttamento sociale, del potere con tutti i suoi abusi, la poesia è analogica, cioè procede per associazioni. E infatti, invece di dividere, associa. Questo risulta chiaro dalla percezione della realtà come ci giunge attraverso il nostro corpo, percezione sensoriale squisitamente analogica, come dimostrò così bene Proust con la sua madeleine, e da questa realtà analogica hanno per lo più preso le mosse i miei testi. Anche qui non c’è stato a monte un pensiero teorico: essi sono nati da una semplice constatazione. Forse il poeta è semplicemente qualcuno che fa funzionare soprattutto la parte analogica del proprio cervello, attraversa il mondo con un piccolo periscopio stando immerso nella sterminata acqua analogica. Per esempio la poesia Opposti, da te citata, è nata nell’isola portoghese di Madeira nella quale ho vissuto a lungo e in cui era molto forte il contatto con una natura ancora selvaggia e in particolare il rapporto con la vastità di un cielo sospeso sopra l’oceano. Lì guardavo il sole guardavo la luna, vedevo che giorno e notte facevano parte di un movimento unico, continuo, che niente interrompeva, se non il nostro desiderio - o necessità - di catalogare e dominare la realtà attraverso il linguaggio come forma di potere. Il linguaggio - quel “linguaggio quotidiano” in cui parlo in una lunga poesia dedicata a Giampiero Neri e intitolata Un giorno di pioggia come tanti - spezza la continuità del cosmo. La poesia la ricompone. In essa, come in un nido, gli opposti se ne stanno uno accanto all’altro, in pace, vicini, nessuno dei due rinunciando alla propria identità. La poesia, linguaggio ossimorico e polisemico per eccellenza, ci dà una conoscenza della complessità della realtà che nessun linguaggio logico ci potrà mai dare, o meglio ci potrà mai far sentire. Perché la poesia ci fa “capire” attraverso un organo unico che la società in cui viviamo continuamente spezza dividendolo in due tronconi, e che si chiama corpomente o, se si preferisce, mentecorpo. M.B.: Un’ultima domanda sulla cultura orientale (o meglio, sugli argomenti che a me richiamano pratiche orientali). Il tuo particolare modo di versificare, pieno di vuoti e di pieni, di alternanze fra bianco e nero, più che ricordarmi il Colpo di dadi mallarmeano, evoca i quadri della pittura cinese e giapponese. I versi, quasi fossero quadri di Watanabe o Huan Ma, si srotolano secondo un linguaggio morse di pieno e vuoto. Nella creazione di questo vuoto ho ritrovato il taglio della tela di Fontana, specie nei testi tratti da Violenza. Emblematica è anche la poesia che recita: Il corpo è un vaso. La morte lo svuota. C’è una tensione tra immagine e parola, tra scrittura e disegno, come nel fondamentale Montagne di Inganno ottico: “La montagna è scrittura. Come la scrittura è violenza che si cristallizza nell’immobilità”. L’atto scritto è un atto di violenza? Ti senti più scrittrice o pittrice? D.B.: In realtà credo che più che la pittura cinese e giapponese, all’origine delle alternanze di vuoti e di pieni nei miei testi ci sia, oltre naturalmente un’influenza yin e yang, soprattutto una lezione che ho appreso da poeti come Jabès, Luzi e Caproni, i quali tutti “giocano” col bianco della pagina. Ricordo anni fa di aver dovuto far rifare quattro le volte le bozze del libro di Edmond Jabès La Memoria e la Mano, uscito nello Specchio, per ottenere che fossero rispettate queste aeree spaziature, questi spostamenti a volte verso destra a volte verso sinistra di alcuni gruppi di versi. Non ci sono più i vecchi, colti tipografi che spesso erano artisti bizzarri, sono stati sostituiti dai computer che vogliono per loro natura imporre l’omologazione: tutto a sinistra o tutto a destra, è poi nata l’orribile idea di scrivere delle poesie “centrate” come schematici alberelli di Natale, in cui un elemento costitutivo 144